È raro leggere sentenze della Corte di Cassazione in materia di lavoro domestico poiché sono ancora pochi i casi che trattano questa materia che arrivano fino all’ultimo grado di giudizio. Per questo ogni espressione della Suprema Corte è un forte contributo per l’intero settore, che aiuta a comprendere e ad interpretare una normativa complessa e in continua evoluzione che oggi stima, in difetto, circa due milioni di lavoratori tra regolari e irregolari.
Ma entriamo nel merito dell’ultima pronuncia degli ermellini: può esserci lavoro domestico subordinato tra familiari?
È possibile fare la colf o la badante a un proprio familiare? La Corte di Cassazione, sez. Lavoro, con Sent. 29 novembre 2018, n. 30899, conferma quanto già aveva definito in altre occasioni, ossia, che nel lavoro domestico prestato tra persone legate da vincoli di parentela o affinità opera una presunzione di gratuità della prestazione lavorativa che trova la sua fonte nella circostanza che la stessa viene resa normalmente affectionis vel benevolentiae causa; con la conseguenza che, per superare tale presunzione, è necessario fornire prova rigorosa degli elementi tipici della subordinazione tra i quali, soprattutto, l’assoggettamento al potere direttivo ed organizzativo altrui e l’onerosità.
Il lavoro domestico: definizione
Spendiamo due parole per contestualizzare il lavoro domestico e comprendere appieno il senso della Sentenza in oggetto. Possono essere lavoratori domestici tutti i soggetti in età da lavoro, di nazionalità italiana, non italiana e apolide, compresi i minori, purché abbiano assolto l’obbligo scolastico e raggiunto l’età minima di 16 anni. Atteso che il lavoratore domestico deve prestare il proprio servizio per il funzionamento della vita familiare, si possono elencare a mero titolo esemplificativo alcune figure lavorative: custode, collaboratrice familiare (colf), assistente a persona autosufficiente o non autosufficiente (badante), baby sitter, giardiniere, autista, ...