Le facoltà del singolo condomino nel godimento delle cose comuni non sono oggetto di una specifica regolamentazione nelle norme del Capo II, Titolo VII del Codice Civile. Invero, le uniche disposizioni che vi fanno espresso riferimento sono l’art. 1130, comma 1, n. 2) c.c., che inserisce la disciplina dell’uso delle cose comuni fra le attribuzioni dell’amministratore, e l’art. 1138, comma 1 c.c., il quale impone la formazione di un regolamento di condominio, che contenga le regole di uso delle cose comuni, allorquando in un edificio vi siano più di dieci condomini. Sicché, in assenza di una diversa disciplina desumibile dalle prescrizioni dell’amministratore o dalle clausole del regolamento, trova applicazione il disposto dell’art. 1102 c.c., in virtù del rinvio che l’art. 1139 c.c. opera alle norme sulla comunione in generale. Ciò significa che ogni condomino può servirsi della cosa comune senza alterarne la destinazione e impedirne il pari uso da parte degli altri condomini, secondo il loro diritto.
Nel quadro generale prospettato, si inserisce una questione ampiamente dibattuta, di frequente sottoposta al vaglio dei giudici di legittimità. Si tratta della qualificazione giuridica e della regolamentazione di un vincolo reale, c.d. di “uso esclusivo”, su parti comuni di un condominio, costituito in favore di uno o alcuni soltanto dei condomini.
La vicenda rimessa alla valutazione della Corte di Cassazione, oggetto della decisione in commento, vede protagonisti gli acquirenti di alcune unità immobiliari facenti parte di un condominio, sorto nei primi anni ’80 per volontà di tre sorelle, originariamente comproprietarie del complesso edilizio. Nell’atto di divisione, con cui ciascuna di loro diventava proprietaria esclusiva dei singoli appartamenti e dei locali destinati ad esercizi commerciali siti al piano terra, si precisava che nel costituendo condominio erano da considerarsi parti comuni non solo il terreno ...