Il testo originario dell’art. 1119 c.c. prevedeva che “Le parti comuni dell’edificio non sono soggette a divisione, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino”.
Tale disposizione era stata interpretata dalla S.C. nel senso che fino a quando perdurava il vincolo condominiale lo scioglimento parziale della comunione poteva essere deliberato soltanto all’unanimità, non potendo gli atti a maggioranza avere mai forza contrattuale, e che singoli condomini non possono imporre agli altri, contro la loro volontà, una divisione (parziale) di aree comuni o di locali comuni; né al giudice era consentito, sia pure su domanda di alcuni condomini, sostituirsi alla volontà di tutti (Cass. 11 febbraio 1974 n. 397).
Si trattava di una interpretazione opinabile, in quanto, ritenendo che la divisione, anche se frutto del consenso unanime dei condomini, per essere valida, non doveva rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino, introduceva un limite all’autonomia privata non chiaramente desumibile dal testo della norma, la quale aveva, invece, una spiegazione razionale se intesa nel senso che introduceva dei limiti ai poteri del giudice, a tutela dei dissenzienti, ove la divisione fosse stata chiesta in via contenziosa da uno o alcuni soltanto dei condomini.
Non erano, del resto, mancate decisioni le quali avevano affermato che il convincimento del giudice del merito circa l’indivisibilità di parti comuni di un edificio condominiale non era sindacabile in sede di legittimità, salva la verifica che la relativa motivazione fosse esente da vizi logici e giuridici (Cass. 26 giugno 1976 n. 2419; Cass. 3 marzo 1971 n. 538).
Altre decisioni si erano occupate dei limiti alla divisibilità, ugualmente sul presupposto implicito della ammissibilità della domanda di divisione (Cass. 14 aprile 1982 n. ...