Con ordinanza 11 giugno 2020, n. 11185, la Corte di Cassazione ha stabilito che in materia fallimentare è legittima l’acquisizione integrale dello stipendio alla procedura quando il fallito gode di risorse all’estero. La disponibilità di denaro e immobili intestati a prestanome testimoniano che la somma non è indispensabile per assicurargli la sopravvivenza.
La questione
Nel caso di specie, il Tribunale ha confermato il provvedimento del giudice delegato che aveva disposto l'acquisizione integrale dello stipendio del ricorrente all'attivo del fallimento della società di fatto di cui lo stesso era socio. In particolare, il Collegio ha rilevato che il provvedimento del giudice delegato fosse stato esaustivamente motivato per relationem al parere del curatore fallimentare, che aveva fondato la richiesta di integrale acquisizione alla procedura degli emolumenti percepiti dal soggetto, perché una serie di circostanze (disponibilità di ingenti somme di denaro intestate a prestanomi, coinvolgimento in operazioni fraudolente a seguito delle quali era stato arrestato, disponibilità di somme di denaro all'estero solo tardivamente dichiarate e disponibilità di un immobile, diverso dalla residenza familiare) dimostravano che il fallito disponeva di risorse considerevoli sfuggite al fallimento e che la percezione dello stipendio non appariva indispensabile per assicurargli la sopravvivenza.
Il fallito, inoltre, appariva inattendibile anche perché aveva dichiarato di non avere altre risorse se non lo stipendio della moglie.
La controversia è così giunta in Cassazione dove il ricorrente ha sostenuto che l’art. 46 della legge fallimentare (R.D. n. 267/1942), non consente l’acquisizione integrale dello stipendio all’attivo fallimentare, ciò perché l'esigenza di mantenimento del fallito e della sua famiglia non può essere ridotto alle esigenze puramente alimentari e perché l'attribuzione stipendiale va quantificata in una misura che costituisca premio e incentivo per l'attività produttiva e reddituale svolta.
La decisione
La Suprema Corte, nel respingere la domanda, ha ricordato che ai sensi dell’art. 46, comma 1, n. 2, legge fallimentare, è sottratta all'attivo fallimentare soltanto la parte dello stipendio (pensione, salario o provento dell'attività lavorativa del fallito) occorrente per il mantenimento del fallito e della sua famiglia e che il fallito ha un vero e proprio diritto a detta parte degli emolumenti. Il giudice, però, ha un potere discrezionale volto ad accertare quanto occorra per il mantenimento suo e della famiglia, da esercitare caso per caso alla luce delle concrete emergenze (Cass. n. 20325/2007).
La tesi del fallito circa il divieto a destinare tutto lo stipendio a favore della massa, non trova riscontro né nell’art. 46 della legge fallimentare, che si limita ad attribuire al giudice del merito un potere discrezionale volto ad accertare quanto occorra per il mantenimento suo e della famiglia, da esercitare caso per caso alla luce delle concrete emergenze afferenti, né nei precedenti giurisprudenziali che all'esercizio di tale potere discrezionale fanno riferimento, potere che nel caso di specie è stato motivatamente esercitato accertando la non ricorrenza dell'unico presupposto di fatto (la necessità per il mantenimento del fallito e della famiglia) richiesto per l'attribuzione.
Nel caso in esame, ha concluso la Cassazione, nessuna censura può essere mossa alla decisione di merito perché il Tribunale ha rilevato che non emergeva alcuna esigenza di mantenimento del fallito, dal momento che in sede penale erano state accertate rilevanti disponibilità economiche sottratte in Italia e all’estero e che il ricorrente conduceva uno stile di vita non proporzionale alla mera percezione dello stipendio.