Con l’ordinanza 6 luglio 2020, n. 13781, la Corte di Cassazione afferma che le buste paga sono sufficienti per dimostrare la sussistenza del rapporto di lavoro.
La questione
Nella vicenda in oggetto, il Tribunale aveva accolto l'opposizione della lavoratrice al provvedimento di esclusione del proprio credito dallo stato passivo del fallimento della società datrice, ritenendo provata la pregressa sussistenza del rapporto di lavoro subordinato tra la prima e la seconda. A tal fine il giudice ha considerato che l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato fosse attestata dalla documentazione allegata dalla lavoratrice (lettera di assunzione, buste paga e CUD sottoscritto dalla procedura fallimentare).
Nel conseguente ricorso per Cassazione il curatore fallimentare deduce, per quanto di interesse, violazione degli artt. 2094 e 2697 c.c., c.c., nonché omessa contraddittoria e insufficiente motivazione sul punto, lamentando che sia stata accertata la presenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti solo in base alla documentazione prodotta ed al nomen iuris attribuito al rapporto, senza alcun accertamento sulle concrete modalità di svolgimento della attività svolta.
La soluzione della Cassazione
Con la sentenza n. 13781/2020, la Sezione lavoro rigetta il ricorso datoriale e stabilisce che le copie delle buste paga rilasciate al lavoratore dal datore di lavoro, se di firma, sigla o timbro da parte di quest’ultimo, hanno piena efficacia probatoria del credito che il dipendente intenda insinuare nel passivo della procedura fallimentare riguardante il datore di lavoro.
Nel merito si rileva che la controversia attiene alla prova del rapporto di lavoro subordinato tra le parti.
Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato che le copie delle buste paga rilasciate al lavoratore dal datore di lavoro, ove munite dei requisiti previsti dall'art. 1, comma 2, della legge 4/1953 (ossia, alternativamente, della firma, della sigla o del timbro di quest'ultimo), hanno piena efficacia probatoria del credito che il dipendente intenda insinuare al passivo della procedura fallimentare riguardante il suo datore di lavoro (Cass. n. 17413/2015; n. 10041/2017; n. 10123/2017; n. 17930/2016).
Un simile valore probatorio discende, in base al combinato disposto degli artt. 39 del D.L. n. 112/2008, 1, 2 e 5 della legge n. 4/1953, dal fatto che il contenuto delle buste paga è obbligatorio e sanzionato (ora) in via amministrativa e, come tale, è di per sé sufficiente a provare il credito maturato dal lavoratore. Naturalmente ciò presuppone che il libro unico del lavoro (LUL) sia stato tenuto in modo regolare e completo.
Quindi, buste paga devono trovare corrispondenza nel LUL, ivi compreso il calendario delle presenze del singolo lavoratore, per quanto attiene agli elementi che compongono la retribuzione, sicché le indicazioni ivi contenute di voci a titolo di ferie, permessi ed ex festività non godute contribuiscono a costituire la base probatoria necessaria a dimostrare il fatto costitutivo del relativo credito che il lavoratore intende insinuare al passivo e vanno valutate in uno con le contestazioni del curatore in merito alla regolare tenuta del LUL sulla base del quale le stesse erano state formate, i mezzi probatori di opposto segno eventualmente addotti dalla procedura o gli argomenti utili a dimostrare il loro inesatto contenuto (cfr. Cass. n. 13006/2019).
In conclusione, la Cassazione considera infondate le censure datoriali in quanto carenti della necessaria specificazione in raffronto ad eventuali elementi in contrasto con le buste paga valutate nella precedente sede di merito